martedì 23 marzo 2010

"I fiori blu", capitolo primo

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d'Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Eudeno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sgagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevano calvadòs.
- Tutta questa storia, - disse il Duca d'Auge al Duca d'Auge, - tutta questa storia per un po' di giochi di parole, per un po' d'anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d'uscita?
Affascinato, continuò per alcune ore a osservare quei rimasugli che resistevano allo sbriciolamento; poi, senz'alcuna ragione apparente, lasciò il suo posto di vedetta e scese ai piani inferiori del castello, dando di passata sfogo al suo umore cioè alla voglia che aveva di picchiare qualcuno.
Picchiò, non la moglie, inquantoché defunta, bensì le figlie, in numero di tre; batté servi, tappeti, qualche ferro ancora caldo, la campagna, moneta, e, alla fin fine, la testa sul muro. Ciò fatto, gli venne voglia d'un viaggetto, e decise di recarsi nella Città Capitale in umile arnese, accompagnato solo dal paggio Muscalliot.
Scelse tra i palafreni il suo roano favorito, chiamato Demostene perché parlava, pur col morso tra i denti.
- Ah, mio buon Demò, - disse il Duca d'Auge con voce lamentosa, - quanta tristezza, quanta melanconia m'opprimono!
- Sempre la storia? - domandò Sten.
- Non c'è gaudio che in me lei non dissecchi, - rispose il Duca.
- Coraggio! Vossignoria si metta in sella, e andiamo a spasso!
- La mia intenzione era ben questa, e altra ancora.
- Qual mai?
- Andar via per qualche giorno.
- Così sì che mi piace! Dove vuole che la porti, signoria?
- Lontano! Qui il fango è fatto dei nostri fiori.
- ...dei nostri fiori blu, lo so. E allora?
- Scegli.
Il Duca d'Auge montò in groppa a Sten che fece la seguente proposta:
- Che ne direbbe vostra signoria d'andare a vedere a che punto sono i lavori della chiesa di Notre-Dame?
- Come? - esclamò il Duca, - non sono ancora terminati?
- E' quel che andremo a controllare.
- Se la tirano tanto in lungo, quei franchi muratori finiranno per metter su una mahomeria.
- Perchè non un buddisterio? o un batti-lao-tsero? o un confucionale? Non bisogna veder tutto così nero, signoria! In strada! Coglieremo l'occasione per porgere il nostro feudal omaggio al santo Re Luigi nono del suo nome.
Senz'attendere risposta dal padrone, Sten si mise a trottare verso il ponte levatoio che s'abbassò funzionalmente. Muscalliot, che non proferiva verbo per paura di prendersi un rovescio di manopola sulle gengive, veniva appresso, montato su Stéphane, così chiamato perchè di poche parole. Dato che il Duca rimasticava la sua amarezza e che Muscalliot, seguendo la sua politica prudente, perseverava nel silenzio, solo Sten continuava a ciarlare allegramente e lanciava ameni frizzi a quelli che lo guardavano passare, i Celti con aria gallicana, i Romani con aria cesaera, i Saraceni con aria cerealicola, gli Unni con aria univoca, i Franchi con aria sorniona, i Vandali con aria vigile e urbana. I Normanni bevevan calvadòs.
Nell'inchinarsi al passaggio del loro ben amato signore, i villici bofonchiavano oscure minacce, ma sapendo che sarebbero rimaste senza seguito non le spingevano più lontano dei propi baffi, chi li aveva.
Sulla strada maestra, Sten andava di buon passo e stava zitto: non c'era traffico e lui non trovava più interlocutori; non voleva importunare il suo cavaliere, che sentiva sonnecchiare; dato che Stef e Muscalliot condividevano tale riserbo, il Duca d'Auge finì per l'addormentarsi.
Abitava una chiatta ormeggiata nei paragi d'una grande città e si chiamava Cidrolin. gli si serviva in tavola un'aragosta non troppo fresca con una glauca maionese. Scorticando le zampe della bestia con lo schiaccianoci, Cidrolin disse a Cidrolin:
- Mica gran che, mica gran che; a far da cucina Lamelia non imparerà mai.
Soggiunse, sempre rivolto a se stesso:
- Ma dove diavolo andavo, addosso a quel cavallo? Non mi ricordo più. Del resto, vedi i sogni come sono: mai in vita mia sono montato su un cavallo. In bicicletta neanche: mai in vita mia sono montato su una bicicletta, ma in sogno, in bicicletta non ci vado mai, a cavallo sì. Una spiegazione ci dev'essere, questo è poco ma sicuro. Certo quest'aragosta non è gran che, e questa maionese neanche, e se imparassi ad andare a cavallo? Al Bois, per esempio. Oppure in bicicletta.
- Non avresti neanche bisogno di patente, - gli si fa osservare.
- Lascia perdere.
Gli si porta il formaggio.
Gesso.
La frutta.
Piena di vermi.
Cidrolin si pulisce la bocca e mormora:
- Anche questa l'ho in quel posto.
- Non t'impedirà di farti la tua siesta, - gli si dice.
Non risponde; la sedia a sdraio l'attende sul ponte. Si copre la faccia con un fazzoletto ed eccolo già in vista delle mura della capitale, in quante tappe non importa.
- Càspita! - esclamò Sten, - ci siamo.
Il Duca d'Auge si stava svegliando con l'ompressione di aver mangiato male. Fu allora che Stef, il quale non aveva detto nulla da quand'erano partiti, sentì il bisogno di prnedere la parola, in questi termini:
- Alma ed inclita città...
- Silenzio! - disse Sten. - Se ci sentissero parlare, il nostro buon padrione sarebbe accusato di stregoneria.
- Brr, - fece il Duca.
- E il suo paggio, idem.
- Brr, - fece Muscalliot.
E per mostrare in che modo conveniva a un cavallo esprimersi, Sten nitrì.
Il Duca d'Auge discese alla Sirena Storta, che gli era stata racomandata da un trovatore di passaggio.
- Cognome, nome, titoli? - domandò Martin, il locandiere.
- Duca d'Auge, - rispose il Duca d'Auge, - Joachim di nome. Sono accompagnato dal mio devoto paggio Mouscalliot, figlio del Conte d'Empoigne. Il mio cavallo ha nome Sten e l'altro si chiama Stef.
- Domicilio?
- Larche, vicino al ponte.
- Tutto molto cattolico, mi pare, - disse Martin.
- Spero bene, - disse il Duca, - perchè con le tue domande cominci a rompermi le tasche.
- Che sua signoria mi perdoni, è per ordine del Re.
- Non vorrai mica domandarmi cosa vengo a fare nella capitale?
- Non c'è bisogno! Sua signoria viene a visitare le nostre sgualdrine che sono le più belle di tutta la cristianità. Il nostro santo Re non le può soffrire; ma esse partecipano con ardore al finanziamento della prossima crociata.
- Mal t'apponi, locandiere. Vengo a vedere a che puinto siamo coi lavori della chiesa di Notre-Dame.
- La torre a sud è parecchio avanti e adesso si comincia quella a nord e la alleria che le congiunge. si rifanno pure le parti in alto per dare più luce.
- Basta! - urlò il Duca. - Se mi racconti tutto, non mi restrerà che tornarmene a casa, il che non mi si confà.
- Non confà neanche a me, quindi porto da cena immantimenti.
Il Duca mangià copiosamente , andò a dormire, dormì di buon appetito.
Non aveva ancora terminato la siesta, quando lo svegliarono duo nomadi interpellandolo dall'alto della riva. Cidrolin rispose a segni, ma loro certo non capivano quel linguaggio, dato che discesero la scarpata fino alla passerella e salirono a bordo della chiatta. Erano in campeggiatore maschio e un campeggiatore femmina.
- Skiuzate euss, - disse il campeggiatore maschio, - nostros sind lost.
- Cominciate bene, - replicò Cidrolin.
- Comprì? Egaràti... Lostati.
- Triste destino.
- Campinghe? Lùen? Euss... smarriti.
- Chiacchierare chiacchiera, - mormorò Cidrolin, - ma parlerà in europeo vernacolare o in neo-babelico?
- Ah, ah, - fece l'altro con segni manifesti di soddisfazione, - Voi fersteate l'iuropìo?
- Un poco, - rispose Cidrolin, - ma mettete giù lo zaino, nobili stranieri, e prendete un glass con me prima di ripartire.
- Ah, ah, comprì: glass.
Radioso, il nobile straniero posò lo zaino, poi, disegnando i mobili destinati alla bisogna, s'accoccolò sull'impiantito, incrociando agilmente le fambe sotto di sé. La signorina che lo accompagnava lo imitò.
- Saranno giapponesi? - si domandò Cidrolin a mezza voce. - Però hanno i capelli buondi. Che siano degli aino?
E rivolto al giovane:
- Non sarà mica aino, lei?
- I? No. Io: piccolo amico di tutot il mondo.
- Capito: pacifista?
- Jawohl. E quel glass?
- O europeo, tienti pur calmo!
Cidrolin battè le mani e chiamò:
- Lamelia! Lamelia!
Si apparve.
- Lamelia, da bere per questi nobili stranieri.
- Da bere che?
- Quella bevanda alcolica che si ottiene dalla fermentazione dellessenza di finocchio, e viene versata nel bicchiere in piccola dose e poi diluita con acqua naturale.
Ci si eclissò.
Cidrolin si sporse verso i nomadi.
- Allora, uccellini miei, vi siete ferloren?
- Sperduti, - disse la ragazza. - Complètement paumés.
- Dolcezza mia, saresti tu francese?
- Non ancora: canadese.
- E questo glass? - domandò l'accoccolato. - Schnell, da trincare!
- Un po' rompiballe, - disse Cidrolin.
- Oh, non è mica cattivo.
- E naturalmente ve ne andate tutti e due al campo da campinghe per campisti.
- Lo stiamo cercando.
- Siete quasi arrivati. E' lungo il fiume, a meno di cinquecento metri a monde da qua.
- We sind arrivés! - esclamò il giovane rimettendosi in piedi d'unzolo movimento. - Sri hundred yards? Allons!
Si rimise lo zaino in spalla, uno zaino che doveva essere sulla tonnellata.
- Stiamo aspettando l'essenza di finocchio, - disse la ragazza senza muoversi.
- Uell, uell.
Tornò a calare la tonnellata delle sue impedimenta e a sedersi sull'impiantito con la stessa naturalezza che su un fior di loto.
Cidrolin sorrise alla ragazza e le sidde con aria complimentosa:
- Ammaestrato!
- Ammaestrato? Non capito.
- Eh sì, basta muovere un dito e ubbidisce.
La ragazza alzò le spalle.
- Metta in moto le meningi, - disse. - Resta perchè è libero, non perchè è ammaestrato. Fosse ammaestrato andrebbe dritto filato al campo da campinghe per campisti. Resta perchè è libero.
- Ce ne sta, di pensiero, dentro una testa così piccola, - mormorò Cidrolin guardando con pioù attenzione la canadese che metteva in mostra la bionda peluria delle cosce e la suola delle scarpe. - Eh sì che ce ne sta...
In quella, venne servita l'essenza di finocchio e l'acqua naturale. Bevvero.
- E com'è che nomadate? - domandò Cidrolin. - A piedi, a cavallo, in machina? in bici, moto, auto, elico?
- In stop, - rispose la ragazza.
- Autostop?
- Certo, icciaìking.
- Io l'autostop lo faccio coi tassì. E' più caro.
- Il denaro me ne frego.
- D'accordo. E la mia essenza di finocchio?
- Mica male. Io, meglio l'acqua pura.
- Qui non è mai pura. Il fiume è fogna e il rubinetto cloro.
- Vuole che lui le canti qualcosa?
- Per fare?
- Per ringraziarla.
- Dell'essenza di finocchio?
- Dell'accoglienza.
- Molto gentile. Grazie.
La ragazza si voltò verso il giovane e gli disse:
- Canta.
Lui scavò nel suo bagaglio, ne trasse un banjo di dimensioni minime e prese a grattarne le corde. Dopo alcuni accordi preliminari, aperse la bocca e si intesero queste parole:
- J'aime Paimpol et sa falaise, son clocher et son vieux pardon...
- Dove l'hai imparata? - domandò Cidrolin quando fu finita, dopo aver ringraziato il virtuoso.
- A Paimpol, naturalmente, - rispose la Canadese.
- Atupido che sono, - disse Cidrolin dandosi la mano sulla fronte. - Non ci avevo pensato.
Il minibanjo venne reintegrato nel rucksack. Il giovane riprese la posizione eretta e tese la mano a Cidrolin.
- Sanx, - disse, - è riverertchi.
E alla ragazza:
- Schnell! Cisivà o nosivapyou?
La ragazza si alza con grazia e s'imbasta del suo basto.
- Ammaestrata, - disse Cidrolin a mezza voce.
Il nomade protestò:
- Nein! Nein! No maestrata: lìpera. Sie iz lìpera. Andato the campus bicòs sie iz Lìpera de allé to the campus.
- Ma sì, ma sì.
- Ciao, - disse la ragazza tenendo a sua volta la mano a Cidrolin. - Grazie ancora e forse torneremo a vederla, se si ha il tempo.
- Ecco, - disse Cidrolin.
Li guardò arrampicarsi per la scarpata con tutti i loro bagagli.
- Ci vuole schiena, per quel mestiere lì, - mormorò.
- Torneranno? - domandò Lamelia.
- Credo di no. No, non torneranno più. Che me ne viene? Sono appena partiti ed è tanto se mi ricordo di loro. eppure esistono, meritano d'esistere, non c'è dubbio. Non torneranno più a smarrirsi nel labirinto della mia memoria. E' stato un incidente senza importanza. Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita a occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quandi li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre. Avrò sognato?
Lamelia non aveva da dirglì nè di sì nè di no; e del resto non aveva nemmeno atteso la fine del discorso.
Cidrolin consultà l'orologio del quadrato e constatò non senza soddisfazione che l'episodio dei nomadi non era stato che un intermezzo molto breve nel tempo ch'egli accordava alla siesta, e che essa siesta poteva venire degnamente prolungata per qualche minuto ancora. Si distete quindi sulla sedia a sdraio e riuscì a riaddormentarsi.